Si può parlare davvero di razzismo nella moda?
Diane von Furstenberg, Tory Burch, Marc Jacobs e molti altri designer, hanno voluto sostenere Hillary Clinton creando per lei una serie di T-shirt per la campagna elettorale con frasi tipo, “I diritti delle donne sono diritti umani”. In Irlanda, quando il paese si stava preparando per votare l’abolizione dell’aborto, i designer irlandesi hanno creato una serie di cappelli e maglie di lusso che riportavano la scritta “abrogare” ricamata. E quando Trump minacciò di cacciare dallo stato i musulmani che vivevano negli Stati Uniti, i designer hanno preso una posizione facendo sfilare le loro modelle durante la Fashion Week di New York coperte con parole come “immigrati” e “umani”.
La comunità della moda ha dimostrato, più e più volte, che è giusto lottare contro le ingiustizie sociali e le cause legate al progresso. Per cui è ancora più giusto chiedersi perchè non si sia battuta per le ingiustizie razziali all’interno dei propri ranghi. I numeri raccontano una storia: d’accordo con il Council of Fashion Designer of America, una delle organizzazioni più rinomate, solo il 3% dei membri sono di colore. Meno del 10% dei designer che hanno partecipato alla Fashion Week sono di colore. Solo il 15% delle modelle che calcano le passerelle sono di colore.
Queste statistiche dipingono lo scenario di una sistematica marginalizzazione delle persone di colore, della loro sensibilità estetica e dei loro corpi. L’industria della moda ha deliberatamente deciso di essere arbitro di gusto e bellezza. Ma per le molte persone che guardano la moda da lontano, il messaggio che viene mandato da queste figure è che l’essere di colore non rappresenta la bellezza.
C’è stato, però, un progresso. Durante gli anni passati, molte persone di colore sono riuscire ad emergere in questo mondo.Virgil Abloh è il primo uomo di colore a prendere il posto di direttore artistico uomo da Louis Vuitton. Edward Enniful è il primo caporedattore di colore da Vogue. Tyler Mitchell è il primo fotografo di colore a scattare una copertina di Vogue (su istanza di Beyonce, che era apparsa nel numero).
Ma tutte queste buone notizie mascherano una realtà che si cela sotto alla superficie. Se diamo un’occhiata a questo mondo più da vicino, è chiaro che le persone di colore devono affrontare ancora molte barriere prima di entrare in questo mondo. Molte di queste barriere sono venute a galla in una recente storia del New York Magazine, nella queale Lindsey Peoples Wagner ha parlato con più di 100 persone di colore all’interno di questa industria: dagli stilisti ai modelli fino ai designer e agli editori. Molti di questi sono abbastanza conosciuti come Kimora Lee Simmons e Tracee Ellis Ross, e molti degli altri sono nomi che nessuno aveva sentito prima, perchè nomi di chi lavora dietro le quinte. Tutti gli intervistati hanno raccontato storie nelle quali l’essere ignorati, marginalizzati e insultati sono parte della vita di tutti i giorni.
Karefa-Johnson ricorda un momento durante il quale una persona (non di colore) disse di volere le “boxer braid”. Chiese per sicurezza se volesse le treccine aderenti, solo per ottenere la risposta che immaginava, “le treccine sono disgustose”. Ricorda che pensò “Non ho il tempo per spiegarti che questa cosa è fondamentalmente razzista e problematica: stai dicendo che è questo stile, usato tipicamente dagli afroamericani, è disgustoso. Ma è lo stesso stile che tu usi chiamandolo con un’altra parola (più “bianca”)”.
Emma Frede, la co-founder del brand di denim di successo Good America insieme a Khloe Kardashian, confessò a Karefa che la chiave per la sua fiorente carriera è ignorare il fatto che la maggior parte delle volte lei è l’unica persona di colore all’interno della stanza. Questo le ha permesso di approfittare delle opportunità in ambito lavorativo con fiducia invece che con ansia e pausa. “Qualcuno doveva arrivare per primo ed essere la prima donna di colore in quell’ufficio”, mi disse, “Ad un certo punto devi solo andare avanti e fregartene di tutto il resto”.
Mentre questa fiducia in se stessi è fonte di ispirazione – in particolare per tutte quelle persone di colore che sono desiderosi di entrare nel mondo della moda – è importante riconoscere che questi sono dei meccanisimi di copia. Ciò permette a queste donne di sentirsi e comportarsi come se il terreno di gioco sia uguale, anche se chiaramente non è così.
Il razzismo è un problema sociale che permane. Ma l’industria della moda è costellato di problemi strutturali unici che lo rende un mondo particolarmente privo dei requisiti necessari per combattere il razzismo. Ha una cultura tossica di esclusività e elitarismo che, intersecata con il razzismo, aggrava i suoi effetti. Fino a pochissimo tempo fa, molti addetti interni dei brand di moda, firme della pubblicità e dei magazine non venivano pagati. E la paga per gli stagisti (o coloro che ricevevano la prima mansione all’interno di questo mondo) è ancora molto bassa. Questo spesso significa che le uniche persone che si possono permettere questo tipo di lavoro vivono in città come New York e Los Angeles e sono già indipendenti. In una storia che scrissi l’anno scorso, scoprii che molti degli impigati che assumevano, non avevano veramente bisogno dello stipendio. Questo escludeva la maggior parte delle persone che avevano bisogno di viverci (con lo stipendio) invece che sopravviverci.
Questo sistema gerarchico promuove inoltre una cultura nella quale chi ha fatto il proprio dovere si sente in diritto di affermale la propria autorità sopra tutti coloro che sono appena entrati in questo mondo. Questo si associa alla credenza secondo la quale, essendo quello della moda un settore creativo, è accetabile che chi si trova al top di questa scala – designer, stilisti e editor di magazines – si comporti in maniera scorretta con abusi verbali, in nome del genio artistico. Ma in un ambiente nel quale le persone si trovano a parlare della sopravvivenza dell’arte, è facile per coloro i quali si trovano ai livelli più bassi, subire degli abusi. E quando ciò accade, molte delle persone di colore che sono riuscite ad entrare in questo mondo, non riescono a fare carriera passando ai livelli più alti.
C’è ancora da considerare il monolite della nozione di bellezza che il mondo della moda è colpevole di star perpetuando. Durante le decadi passate, i corpi scheletrici sono stati considerati bellissimi. I designer hanno spesso affermato come le modelle magre erano capaci di mettere in luce gli elementi artistici degli abiti. Ma è altrettanto importante considerare come questa idea di bellezza si intersecano con la questione della razza. C’è oggi un movimento inclusivo che combatte contro lo stereotipo che afferma che i corpi “in carne” sono meno attraenti. Tutti, chi dal red carpet come il designer Christian Siriano fino ai brand più mainstream come J. Crew sono esplosi nel mercato delle grandi taglie, creando degli abiti eleganti e di alta qualità per le donne “in carne“. Separatamente, le agenzie di modelle e i giornali di moda sono stati spinti a collaborare con più modelle di colore. Sebbene siamo ancora all’inizio del processo, come rivela il New York Magazine, il pregiudizio contro le modelle curvy o con la pelle scura è ancora forte.
Si, è importante collaborare con modelle di colore nelle sfilate e per le cover dei magazine e portare designer, fotografi e editor di colore fino ai ruoli più importanti di questa gerarchia. Ma è altrattanto importante investigare dentro le dinamiche più oscure del razzismo nel mondo della moda e non rinunciare solo perche Beyoncè è sulla copertina di Vogue o Virgil Abloh è alla guida di Louis Vuitton.
La recente partnership di Gucci con Dapper Dan ha mostrato un bel modello che riguarda come portare più “voci nere” dentro il mondo della moda ingnorando la profonda storia del razzismo sotto la superficie. Nel 1990, griffe come Gucci e Louis Vuitton erano di gran moda, ma mentre le persone indossavano questi brand per le strade di Harlem, sentivano che quei vestiti non si abbinavano ai loro canoni estetici. Dapper Dan, un sarto afro americano di new york, intervenne creano lo streetwear hip con bomber e tute da ginnastica ricoperti con loghi fake di questi brand.
Le sue creazioni vennero indossate dalle persone di colore più influenti del tempo, inclusi boxers e artisiti di hip-hop. Gucci, cosi come altre case di moda di lusso europee, fecero causa immediatamente a Dapper Dan per aver infranto il copyright, forzandolo a mettere fine ai suoi affari. Citare ciò ha rappresentato una forma di razzismo: questi marchi non sembravano preoccuparsi della perdita del logo o delle entrate ma semplicemente non volevano essere associati a persone di colore poiché pensavano che questo potesse macchiare la loro reputazione. Ma, pochi anni dopo, quando lo streetwear si sposto dalle comunità di colore per diventare mainstream, molti di questi brand di lusso optarono sul “black style“- includendo lavori ispirati da Dapper Dan – per farli indossare da modelli bianchi.
L’anno scorso, il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele fece sfilare una modella con un outfit che era una replica fedele di uno creato da Dapper Dan 30 anni prima, una mossa che apparve come uno shock per gli osservatori attenti di tutto il mondo. Gucci sorprese ancora tutti con un successivo annuncio in cui diceva che avrebbe aperto una partnership con Dapper Dan, aiutandolo a riorganizzare il suo atelier a Harlem e aiutandolo nelle campagne di marketing. Questa mossa spostò un uomo di colore al centro di un brand italiano di lusso, mettendo in luce il suo stile e i suoi lavori. Ma questo ci ha permesso di conoscere la storia travagliata tra Gucci e Dapper Dan.
Per concludere, combattere il razzismo nella moda non deve significare includere più persone di colore nella conversazione. Significa permettere che la conversazione avvenga nel loro spinoso territorio, concentrandosi sul fatto che le persone di colore e con essi la loro cultura sia stata, negli anni, sminuita.
Questo articolo è apparso per la prima volta nel magazine Fast Company
https://www.fastcompany.com/90226152/why-racism-is-so-entrenched-in-the-fashion-industry
ABOUT THE AUTHOR
Elizabeth Segran.